Siamo ad Aprile, l'inverno ce lo stiamo lasciando alle spalle e noi abbiamo nuove idee che vogliamo far crescere. Avevamo pensato di condividere con voi delle pagine scelte di "Meadows Mill" di Tamara Cej. Pensiamo che sia una buona occasione per conoscere da vicino un autore emergente di grande spessore e con una scrittura creative e coinvolgente come la nostra Tamara.
Non mi resta che augurarvi buona lettura, a presto.
IL
TEMPORALE
Di solito non ho paura dei temporali.
Anzi, solitamente mi fanno venire voglia di accoccolarmi sotto la mia copertina
con un buon libro e una tazza di cioccolata calda. Tuttavia, il temporale che
infuria stasera, con la sua pioggia violenta, il rombo del tuono che scuote i
vetri e i fulmini che squarciano il buio, mi rende inquieta. Dirò di più, mi
terrorizza. Scuote le fondamenta del mio inconscio, facendole tremare come una
torta di gelatina. Il temporale di stanotte ha qualcosa di innaturale.
Feci un sogno. Vidi, ed ecco, su un
alto colle stava una donna, pareva una zingara dai capelli corvini, le braccia
sollevate verso il cielo che rispondeva rombante al suo richiamo, mentre i
fulmini saettavano frettolosi verso il suolo alle sue spalle, richiamati dalle
parole mai udite che mormorava con le labbra.
Quella mattina, un pallido sole
rischiarò la mia stanza da letto quando sollevai la tapparella, pesante
palpebra del mio sonno. Come ogni giorno, mi recai al bagno accanto alla mia
camera e usai il water. Lavai le mani e il viso col sapone e mi asciugai. Mi
spostai in cucina, di fronte alla mia stanza da letto attraversando l’atrio.
Aprii la dispensa in basso e scelsi una merendina farcita alla crema di
vaniglia e cioccolato dalla terrina dei dolci. Pigiai il tasto del telecomando
e sintonizzai il televisore con schermo a cristalli liquidi sul canale digitale
dei cartoni animati. Stavano dando la serie «Due Fantagenitori». Gustai la mia
discreta colazione, buttai giù una pastiglia di venlafaxina, una di alprazolam
e una di montelukast quindi le ingurgitai con abbondante acqua.
Dovetti rinunciare al comodo pigiama di
cotone color pesca a fiori arancio e verdi in favore di un più adatto paio di
jeans e un’anonima maglietta rosa a maniche lunghe del supermercato. Infilai le
scarpe ai piedi e i documenti in una pochette sportiva in tessuto impermeabile.
Indossai il giubbino nero imbottito col cappuccio ornato di pelo sintetico e
partii alla volta della biblioteca.
Sfrecciai rapida nel modesto traffico
della cittadina di quarantamila abitanti, Meadows Mill, per arrivare a
destinazione il prima possibile. Il via vai delle auto mi terrorizza, sono
tutti dei pazzi quando guidano, sparati come missili su rotaie. Non sai mai
quando ti capiterà di ricevere un servizio completo di stiratura a freddo su
asfalto.
IL COLLETTORE DI ANIME
Fogli
sparsi di carta pergamena ingombravano il piano della scrivania color mogano.
Le venature del legno ondeggiavano sulla superficie opaca.
Risate
nasali dal tono marcatamente isterico riecheggiarono tra le mura di pietra. Tra
i vari fogli scarabocchiati spiccava il diagramma di una macchina cilindrica
simile a un enorme contenitore di cibo per criceti. Accanto al disegno del
marchingegno, lo schizzo di un anello con una pietra ovale incastonata.
Sullo
schermo tivù al plasma da cinquanta pollici scorrevano le immagini di una sfida
a due di un gioco musicale per console. La ragazza si esibì in una mossa da
chitarrista rock quando il gioco la dichiarò vincente.
Caitlin
sedeva sul divano del soggiorno. Dove fino a un giorno prima si era divertita
ai videogiochi con il suo amore. Gli occhi verdi s’inumidirono e diventarono
lucidi. La ragazza tolse le lacrime passandosi le dita sulle palpebre chiuse.
Non era il momento di cedere alla debolezza. Aveva una missione e l’avrebbe
portata a termine il prima possibile. Guardò la cartina della città,
completamente svolta sulla superficie del tavolino del soggiorno. Sollevò il
suo pendolo, una pietra trasparente appesa a una catenella di metallo. Lo tenne
sospeso sull’angolo in alto a sinistra della mappa e chiuse gli occhi.
Concentrò i suoi pensieri visualizzando l’immagine dell’uomo del vicolo
impressa nei suoi ricordi e attese. Non accadde nulla. Spostò il braccio verso
il basso, su un altro quadrante. Percepì un lieve movimento poi nulla. Lo
straniero era passato di lì tempo prima, ma ora non c’era più. La sua traccia
energetica era troppo lieve. Proseguì allo stesso modo finché arrivò al lato
opposto della cartina. Sopra un quadrato preciso della carta cittadina il
pendolo prese a ruotare animatamente, descrivendo un cerchio nell’aria. Caitlin
aprì gli occhi, un’espressione cupa sul viso. L’aveva trovato. Lo stronzo era
lì.
Il
vecchio indossava ancora lo stesso farfallino e le stesse bretelle, ma non era
solo. Sul tavolino degli attrezzi sgombro era steso il corpo di un ragazzo dai
capelli biondo scuro, la pelle cerea e un paio di occhialetti tondi dalla
montatura sottile in metallo. Il vecchio, che insegnava matematica
all’Università della città, lo aveva invitato a casa sua per una discussione
sulla materia. Il pollo, un secchione primo della classe del primo anno, aveva
accettato subito. Il professore aveva disciolto una dose letale di potassio
nella bibita all’arancia che gli aveva offerto.
IL MOSTRO DENTRO
Quella
sera mi sedetti sul mio letto, porta chiusa a chiave. Presi tra le mani lo
specchietto rotondo che usavo per truccarmi di nascosto. Tolsi un velo di
polvere con le dita. Chiusi gli occhi.
Va
bene, pensai.
«Mi avete detto di chiamarvi quando
voglio,» sussurrai. Mi sentivo tesa, allo stesso tempo incuriosita e atterrita
dalla visione che avevo avuto nello specchio del bagno. Non mi passo nemmeno
per l’anticamera del cervello che potesse essere stata un’allucinazione. Nel
profondo avevo sempre pensato di essere stata adottata. Desideravo con tutta me
stessa essere più di una misera mortale, un essere umano usato come uno
straccio dai suoi simili.
Percepii
il nodo allo stomaco che li liberava e un totale rilassamento si impadronì
delle mie membra.
Aprii
gli occhi. Gli occhi rossi erano là, dove li avevo visti quella mattina.
Guardavo me stessa attraverso quegli occhi nuovi.
L’ARMATA DELL’APOCALISSE
Pigiavo
i piedi sui pedali della mia mountain bike, spostando il peso da una gamba
all’altra, sorpresa sopra il sellino nero. Il battito del mio cuore nel petto
martellava fino ad annebbiarmi il pensiero. L’unica cosa che volevo era
raggiungere il rifugio più vicino.
Il
Viale delle Magnolie di quella che un tempo era la soleggiata cittadina di
Meadows Mill si era trasformato in uno squallido e spettrale corridoio di
paura. I copertoni delle ruote divoravano l’asfalto della pista ciclabile
delimitata dalle strisce gialle, mentre zigzagavo tra i corpi ambulanti che
procedevano lenti, tendendo le loro membra ossute verso di me.
Non
sapevo che diavolo fossero quei mostri. Nessuno lo sapeva. La pelle bluastra
aderiva alle ossa come se fossero stati tenuti in astinenza da cibo per lungo
tempo. Creature umanoidi alte e allampanate, completamente prive di peluria.
Non aveva neppure ciglia e sopracciglia, diceva chi li aveva osservati da
lontano con il binocolo.
I
loro visi presentavano lineamenti sottili, gli occhi due palle sgranate in una
perenne espressione irata. L’iride era quasi bianca, così da sembrare che non
l’avessero affatto. I denti gialli e le gengive arrossate sembravano il
risultato di una scarsa igiene orale, a dir poco.
Il
fatto strano consisteva nelle loro fattezze. Erano tutti uguali. Fossero stati
morti viventi o zombie avrebbero conservato le caratteristiche fisiche della
persona a cui era appartenuto il corpo quand’era in vita.
Tamara Cej
@lorenzo fantacuzzi
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