“Mi
hanno ridotto lo stipendio di 240 Touman (una forte penalità remunerativa per
l’epoca) e mi hanno trasferito da Azarshahr a Gowgan (da una cittadina a una
piccola frazione rurale); perché avevo fatto un intervento sul da farsi scolastico,
ridicola burocrazia. Una volta a Gowgan, ho cominciato subito a lavorare. A
insegnare. Proprio come un caparbio bue. Molti si sono meravigliati di tanta
perseveranza nonostante tale ingiustizia esercitata nei miei confronti. Questi non
riuscivano a guardare oltre la punta del proprio naso, nemmeno un passo più
avanti. Mi sono da subito adattato all’ambiente di Gowgan e ho lavorato senza
farci caso … Cerca di non prendertela! Ma non che ti fai nullafacente e non
lavori più. Ecco! L’obiettivo è “partire” e non “arrivare”. La vita è una
matassa troppo imbrogliata. Non porta da nessuna parte. Ma noi non dobbiamo
fermarci, seppur consapevoli di non arrivare a niente: non bisogna fermarsi e
quando ci sarà da morire, moriamo. Al diavolo, chi se ne frega!"
Non
credo che ci sia un modo migliore o più veritiero per presentare Samad
Behranghi, se non le sue stesse parole.
Coraggio,
dedizione, cultura, tattica, consapevolezza, sono solo alcune prerogative della
Lotta e Samad le aveva tutte, abbondanti. La morte è una costante nelle sue
riflessioni e nei suoi racconti. Una sorta di profezia, di presagio del proprio
destino.
Una
delle più rinomate riflessioni di Samad, che ancora oggi è saldamente radicata
nelle menti di tutte le generazioni successive degli iraniani, e non solo, è senza
dubbio il pensiero fatto dal “piccolo pesciolino nero” pochi istanti prima di
affrontare le peripezie più insostenibili di una vita colma di energia, di
ambizioni, di coraggio. Direi il messaggio definitivo di un intellettuale
inquieto e implacabile venuto dalle viscere di una società inclemente e
tradizionalista e pertanto fortemente conservatrice, appunto quella iraniana
degli anni cinquanta e sessanta:
“La
morte potrebbe incombere su di me in ogni momento, anche adesso, ma io non
debbo cercarla e debbo vivere più che posso. E se un giorno dovessi
inesorabilmente affrontarla, poco importa, l’affronterò; importante è però
l’effetto che la mia vita o la mia morte ha sulla vita degli altri.”
Nato
nel 1939, in una famiglia disagiata nei vecchi quartieri poveri di Tabriz, nel
settentrione occidentale dell’Iran, è uno dei sei figli di un padre che a
malapena riesce a fornire una vita minima attraverso umili lavori e, per
arrotondare, vende acqua potabile ai russi e agli ottomani alla stazione ferroviaria,
con un grande otre sulle spalle. Un padre che poi emigrerà verso le terre
caucasiche dell’ex Unione Sovietica, come si usava fare allora per sfuggire
dalle ristrettezze, e non torna più. Ma restò vivido il suo consiglio nelle
orecchie dei figli: “Studiate, studiate, per non avere una fine come la mia.” Samad
impara la povertà fin dalla nascita e assapora il suo gusto acre. Superata la
scuola elementare si trova costretto a lavorare, del resto, cosi era per tutti
i bambini suoi compagni. Tuttavia non abbandona gli studi e riesce a diplomarsi
frequentando scuole serali. Nel 1957, a soli diciotto anni, conclude il corso
biennale e serale all’accademia di pedagogia e diventa insegnante. Nello stesso
anno, si scrive alla facoltà di letteratura inglese, all’università di Tabriz,
dove si laureerà nel 1962, senza mai smettere di lavorare.
Muore
nell’agosto del 1968 all’età di ventinove anni, annegato nel fiume Aras,
confine tra l’Iran e la repubblica di Azerbayejan. Il suo cadavere sarà
rinvenuto dopo alcuni giorni e la causa ufficiale del decesso fu “annegamento
per l’incapacità a nuotare”. Circostanza che ancora oggi rimane non risolta.
Infatti nel credo popolare continua a vivere vigorosamente l’idea della sua
uccisione per mano della polizia segreta dello Shah, perché personaggio scomodo
per il regime. Il ché si avvalorerebbe del fatto che Samad simpatizzava per il
pensiero comunista e lo Shah è stato atrocemente riluttante ai personaggi di
sinistra.
Nella
breve vita di Samad, attitudini intellettuali e doti combattive si manifestano
ben presto. Le sue attività spaziano dalla ricerca alle traduzioni, dal
folklore allo scrivere, dall’insegnamento alla lotta. Sceglie appositamente i
bambini come interlocutori, ma si rivolge soprattutto agli adulti, proprio come
indica il proverbio persiano: “Rivolgo la parola alla porta perché la senta il
muro”. L’amore per i bambini è scaturito dalla convinzione che una società
progredisce solo se le nuove generazioni diventano consapevoli. Ecco che
comincia da loro, quelli più poveri, quelli che come lui bambino assaporano il
gusto acre della povertà. Ecco che si reca nelle zone rurali dove tutto è più
arduo, abbandonando e ripudiando la città. Interagisce con la popolazione,
maggior parte analfabeta ma genuina, insegnando e poi distribuisce libri tra la
gente gratuitamente per farli amare, per discuterne, per coinvolgere piccoli e
grandi.
Samad
Behranghi è un azero. Dopo i persiani, l’etnia azera è la seconda per
popolazione di molte che vivono in Iran. La lingua azera condivide molto con
quella parlata in Turchia, ma non è uguale. Samad impara anche il turco. I suoi
studi sulla lingua azera lo rendono in grado di scrivere molte nuove regole
grammaticali. Lavora sulla traduzione di molti poeti dal persiano in azero e
viceversa.
Nel
1963 pubblica il suo primo lavoro; “Talkhoon”, (dieci racconti per bambini), e
una raccolta di poesie turche, (traduzione in persiano).
Gli
anni a venire saranno fecondi di suoi lavori in libri, articoli, saggi; tra
cui:
Osservazione
sulle questioni educative in Iran; (saggio, 1965)
Racconti
azeri; (traduzione persiana, 1965)
Folklore
e poesia
L’alfabeto
persiano per bambini azeri e
tante altre pubblicazioni.
Ma
le fiabe rimangono la sua passione che ne pubblica diversi ogni anno, tra cui:
Uldoz
e i corvi;
Uldoz
e la bambola parlante;
Il
venditore bambino di barbabietole;
La
vecchia e il suo pulcino d’oro;
Una
pesca, mille pesche;
Ventiquattro
ore in dormiveglia;
e
altre ancora. Queste ultime tre fiabe sono state pubblicate dopo la sua morte,
nel 1969.
“Il
piccolo pesciolino nero”, è il lavoro più conosciuto di Samad e forse anche il
suo capolavoro.
Si può dire che in questo libro Samad Behranghi raccoglie,
evidenzia, contesta, molte barriere che produce la convivenza sociale e ne
traccia una via d’uscita: la lotta quotidiana, a cominciare dai bambini.
Un
argomento cosi caro a lui che per controversie con la burocrazia, in
particolare con quella dell’istruzione, finisce anche in tribunale, ma poi
assolto.
“Il
piccolo pesciolino nero” viene pubblicato nel 1968, giusto un mese prima che
Samad Behranghi perdesse la vita.
Conosciamo meglio il curatore di questo libro: Jamshid Shahpouri
Sono nato in Iran nel 1959, ho studiato alla scuola superiore fisica e matematica, ho frequentato corsi di specializzazione in inglese e nel 1979 mi sono trasferito in Italia.
La prima cosa che ho fatto e studiare l’italiano, poi mi sono iscritto all’Università di Catania per studiare ingegneria, successivamente architettura a Venezia.
Sono sposato, mia moglie è italiana e ho due figli.
Nonostante i miei studi scientifici amo scrivere poesie, testi per canzoni e racconti, sia in persiano che italiano.
Mi occupo di fotografia, traduzioni e collaboro con siti internet che si occupano di Iran.
@LorenzoFantacuzzi