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domenica 22 novembre 2015

Jamshid Shahpouri e la dolcezza persiana



Conosciamo meglio il nostro amico e autore Jamshid Shahpouri.

Nato in Iran nel 1959, ho studiato alla scuola superiore fisica e matematica, ho frequentato corsi di specializzazione in inglese e nel 1979 mi sono trasferito in Italia.
La prima cosa che ho fatto e studiare l’italiano, poi mi sono iscritto all’Università di Catania per studiare ingegneria, successivamente architettura a Venezia.
Sono sposato, mia moglie è italiana e ho due figli.
Nonostante i miei studi scientifici amo scrivere poesie, testi per canzoni e racconti, sia in persiano che italiano.
Mi occupo di fotografia, traduzioni e collaboro con siti internet che si occupano di Iran.




1. Raccontaci qualcosa di te e sulla tua passione per la scrittura. 
Alla scrittura arrivo con molto “ritardo”. Intendo dire nell’età avanzata. Ho sempre avuto un debole per le poesie, erano e sono tuttora più congeniali a me – mi prendono emotivamente fino a condizionarmi la giornata, se non le giornate; in bene e in male. Del resto io sono persiano, noi siamo un po’ toscani per quanto riguarda la poesia. Fa parte del nostro parlare, del nostro comunicare. Quando ero giovane, era facile incontrare anziani, magari analfabeti, che sapevano a memoria intere opere liriche dei grandi poeti ed erano una fonte di emozioni. Erano affascinanti. Cosi come i cantastorie che allora erano un po’ di colorito folklore nelle viuzze dove crescevamo spensierati. Ci costringevano ad un’amabile contemplazione.
E poi, come chiunque ami la poesia e ne mastichi un po’, finisci per scriverne qualcuna anche tu. È una forza sopranaturale che ti sovrasta, strappandoti ogni arbitrio e quindi scriverle diventa un bisogno, specie subito dopo la lettura di qualcuna che ti colpisce fortemente.
La mia non finiva qui, avendo due lingue e appartenendo a due culture (lo dico orgogliosamente e con un pizzico di presunzione), dovevo fare sapere a una parte qualcosa letto dell’altra, a tutti i costi. Ecco i primi passi nella traduzione, soprattutto per mettere al corrente i miei familiari italiani, cosi come quelli iraniani. Un cammino arduo quanto coinvolgente. Certo non sono mancati momenti di disperazione. Chi traduce cammina sull’orlo della banalità, non ci vuole nulla per oltrepassarlo inavvertitamente. È un rischio che bisogna correre e che ti consuma non poche energie. Tuttavia è un lavoro molto appagante quanto d’arricchimento. «La traduzione è sempre un esercizio formativo per uno scrittore.» - Dacia Maraini
Come nel caso della poesia, anche la traduzione ti inietta un po’ di audacia fino a invogliarti prima o poi, a scrivere qualcosa di tuo. Ed eccomi qua! Seppur debba ancora fare molta strada per essere uno scrittore “vero”.

2. Vorresti scrivere un romanzo e di che genere?
Il genere non lo so. Mi piace lo stile di “in nome della rosa”: giallo, storico, conflittuale, concettuale, rivelatore delle contraddizioni e le loro verità, … , ma anche narrazione; in poche parole: intrigante. Se potessi un giorno mettere assieme tutte le peculiarità da ritenerlo “intrigante”, allora sì, mi piacerebbe scrivere un romanzo; altrimenti resto aggrappato ai racconti, alle poesie, alle traduzioni, che comunque debbano essere anche loro “intriganti”, seppur in una dose minore.

3. Dove ti piace scrivere i tuoi libri?
Credo di comprendere la tua domanda. È vero, esiste un luogo fisico per poter scrivere. «Io lavoro (leggi scrivo) nel mio studio.» Disse una volta Andrea Camilleri. La concentrazione è una sfera invalicabile. Scrivere è maledettamente simile a un caos e lo scrittore è colui che troverà un ordine nel viavai ingarbugliato di innumerevoli pensieri. La somma tra la valenza dei pensieri e il grado del loro ordine da’ il valore dello scrittore.
Il mio posto è davanti al computer nella stanza del casino (cosi la chiamano i miei).

4. Dove trovi l’ispirazione quando scrivi un libro?
L’ispirazione nasce dall’emozione. Da un evento esaltante, un pensiero arguto, un panorama seducente, un bel fiore, da qualsiasi cosa capace di destare il sentimento ed il bisogno di raccontare quell’emozione fa il resto. La letteratura è una razionalità emotiva che non è una contraddizione, ma uno strumento per posizionarsi in un punto di vista diverso. Ma poi come lo possiamo utilizzare questo strumento, è molto soggettivo.
Calvino diceva di essere lento nell’iniziare a scrivere quando aveva un’idea, però celere nel finirlo. Ma non è cosi per tutti. C’è chi elabora l’idea iniziale e comincia a scrivere in un secondo tempo e chi comincia un’idea e l’elabora strada facendo.

5. Quando hai scritto il tuo primo libro?
A sedici anni. E menomale che l’ho perso, avrei avuto molte delusioni. Subito dopo però, ho scritto una sceneggiatura teatrale per la scuola che è andata pure in scena.
Finora, ho solo pubblicato traduzioni sotto forma di libri. Poesie e racconti sono stati inseriti nelle varie antologie. L’ultima è “Raccontami una storia” in cui io partecipo con una libera interpretazione in italiano di un racconto popolare persiano, che è in fase di pubblicazione con la collaborazione della Caritas di Udine.

6. Quando di te c’è nei tuoi libri?
Direi moltissimo. Non in termini autobiografici ma come inconscio. Un lavoro letterario viene comunque partorito dalle viscere dell’autore quindi è impossibile non impregnarlo di sé. E poi, mi viene quasi impensabile immaginare un’opera artefatta, lontana da vizi e virtù di che la plasma.

7. Trovi difficile scrivere in una lingua che non è tua?
Prendo in prestito le parole di Josef Konrad: «Nell’intimo mi parlo in polacco, ragiono e faccio considerazioni in francese e scrivo in inglese.»
Questa affermazione di Konrad rende moltissimo, nonostante la sua drasticità. Nell’imparare una nuova lingua, ci sono parti di te che si formano e crescono coll’aumentare della conoscenza di quella lingua, e rimangono “originarie” di essa. In altre parole, una parte di te ne acquisisce la nazionalità e diventa “straniera” nei confronti della parte di altra lingua. Ma convivono nella stessa casa accettandosi incondizionatamente, come due amanti stranieri. Quindi uno si sdoppia in funzione del numero di lingue che conosce. Perciò non è “difficile” scrivere in una lingua acquisita perché ogni volta interviene quella parte interpellata.

8. Cosa risponderesti a chi ti dice: Mi piacerebbe scrivere, ma dove lo trovo il tempo?
Effettivamente non è facile rispondere a questa domanda. Nel mio caso è la passione a procurarmelo, quando sono “in vena” naturalmente.


9. Esiste un libro che ha avuto una grande influenza nella tua vita?
Ovviamente si, e sono diversi. L’ultimo è stato “Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani. Dopo un periodo di astinenza quasi ventennale dai libri, che è cominciato intorno ai venticinque anni, ho ripreso a leggere e contemporaneamente, a tradurre. Tradurre è stato sempre una passione per me. Dopo un po’, scelgo proprio questo libro come il mio primo lavoro di traduzione da “professionista”. È un testo voluminoso dai concetti direi non facilissimi, richiede molte ricerche in entrambi le lingue. Dopo un paio di capitoli ho deciso di accantonarlo momentaneamente. Ma se non avessi cominciato da quel testo “sbagliato”, non avrei fatto certo quelle “immancabili” esperienze. Devo tanto a quel libro se oggi faccio questo mestiere.

10. Qual è il prossimo passo ?
Sono molto attratto in questo periodo dai racconti popolari persiani. Sto facendo una libera interpretazione in italiano di questi racconti e non te lo nascondo, stanno venendo abbastanza carini, mi piacciono. Potrebbe essere un’idea farne una raccolta.
Ho anche una traduzione in corso di una bella fiaba scritta da un amico scrittore iraniano. In più dovrei finire la traduzione in persiano del libro “Il giorno prima della felicità” di Erri De Luca.
Quindi il prossimo passo sarebbe, quando sarà, scrivere un romanzo! 





“Il piccolo pesciolino nero”, è il lavoro più conosciuto di Samad e forse anche il suo capolavoro. Si può dire che in questo libro Samad Behranghi raccoglie, evidenzia, contesta, molte barriere che produce la convivenza sociale e ne traccia una via d’uscita: la lotta quotidiana, a cominciare dai bambini. Un argomento cosi caro a lui che per controversie con la burocrazia, in particolare con quella dell’istruzione, finisce anche in tribunale, ma poi assolto.




“Il piccolo pesciolino nero” viene pubblicato nel 1968, giusto un mese prima che Samad Behranghi perdesse la vita.
@lorenzofantacuzzi

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